Cecilia Mangini
Storia
Passata alla storia del cinema italiano come la prima documentarista del secondo dopoguerra, Cecilia Mangini nasce a Mola di Bari il 31 luglio 1927. La grave crisi economica degli anni Trenta costringe i genitori Antonio Mangini, impiegato presso la conceria di famiglia, e Jolanda Cherici, proveniente dalla piccola aristocrazia aretina, a trasferirsi qualche anno dopo a Firenze. Il capoluogo toscano le offre la possibilità di crescere in un ambiente culturalmente stimolante e, per un donna, di avere un’educazione scolastica non scontata. Questa città sarà il soggetto del suo secondo documentario, Firenze di Pratolini (1959): un viaggio nei quartieri popolari in cui le vicende personali e politiche degli artigiani, protagonisti dei romanzi dello scrittore fiorentino, si intrecciano con i cambiamenti socio-politici del primo ventennio del Novecento.
Di nascosto dalla madre che riteneva la sala cinematografica un luogo malsano, negli anni del liceo ha l’occasione di frequentare assiduamente i Cineguf (circoli del cinema organizzati dai Gruppi Universitari Fascisti), scoprendo e alimentando il suo amore per la settima arte.
Alla fine della guerra Mangini viene mandata a studiare in un collegio in Svizzera dove ha l’occasione di vedere il film che le cambia la vita: La grande illusione (1937) di Jean Renoir. A questa tappa essenziale per la sua formazione personale e artistica segue il ritorno a Firenze, dove si iscrive al cineclub Primi Piani. Ha modo di vedere molti capolavori del cinema europeo, alcuni dei quali proibiti all’epoca del regime: dalla produzione dei fratelli Lumière a La passione di Giovanna d’Arco (Carl Theodor Dreyer, 1928), fino ad Amanti Perduti (Marcel Carné, 1945). Il cinema diventa per Mangini lo strumento privilegiato attraverso cui affrancarsi dal retaggio culturale fascista. I dibattiti e le accese discussioni intorno alle proiezioni sono per la giovane cineasta una ‘scuola di partecipazione’ fondamentale per sviluppare un proprio senso critico ed estetico, politicamente schierato a sinistra. Mangini svolge un ruolo attivo all’interno del cineclub fiorentino che la introduce negli ambienti intellettuali che gravitano intorno al cinema, permettendole di allacciare rapporti con la sede centrale di Roma, dove si trasferisce nel 1952.
Chiamata dal critico Callisto Cosulich che allora guidava la FICC (Federazione italiana dei circoli cinematografici), Mangini si occupa della programmazione a livello nazionale dei cineclub rimasti fedeli al partito comunista. È in questo contesto che conosce Lino Del Fra con cui nasce una profonda intesa e che diventerà suo compagno di vita e di lavoro; condividono gli stessi valori sociali e politici e amano il cinema sopra ogni altra cosa.
Gli anni Cinquanta sono per Mangini un periodo di intensa sperimentazione. Gradualmente, trasforma la sua passione cinematografica in un percorso professionale che la porta a diventare regista. Scrive per “Cinema Nuovo” e altre riviste specializzate e scopre di essere una fotografa di talento. Nel 1952, durante una vacanza estiva a Lipari, armata di una Zeiss Superikonta, raccoglie la lezione del cinema neorealista, ritraendo le donne, gli uomini e i bambini scalzi che lavorano in condizioni estreme nelle bianche cave di pietra pomice. Per la rubrica Il loro primo successo del rotocalco “Rotosei”, intervista intellettuali, scrittori e registi, tra cui Ennio Flaiano, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Vasco Pratolini, accompagnando i testi con i loro ritratti.
Il “pedinamento del reale” zavattiniano perseguito da Cecilia Mangini nel ruolo di fotoreporter – ben lontano dall’essere “un mestiere per signorine” – in qualche modo la allena, la conduce a quella che sarà la sua forma d’arte elettiva: il documentario. Nell’estate del 1958, dopo aver convinto Renzo Renzi, ideatore della collana Dal soggetto al film (Cappelli editore), ad affidarle la cura del volume sulla genesi di La Loi, con la regia di Jules Dassin, raggiunge la troupe a Carpino, un minuscolo paesino del Gargano, per documentare fotograficamente la lavorazione del film. Ha così modo di trovarsi “immersa in quello che è il fare un film… i suoi problemi, i suoi inciampi e i suoi momenti di fulgore”. Dopo questa esperienza, Mangini avverte la “spinta fortissima… di tentare la sorte”, mettendosi dietro la macchina da presa. Il produttore Fulvio Lucisano, alla ricerca di nuovi registi grazie ai finanziamenti dei premi di qualità appena entrati in vigore, le propone di dirigere un documentario.
Per Ignoti alla città (1958), il suo esordio, per Stendalì, suonano ancora (1960) e per La canta delle marane (1961), Mangini si avvale della collaborazione di Pier Paolo Pasolini che scrive i testi della voice over a commento delle immagini. Ignoti alla città e La canta delle marane rappresentano un dittico che ritrae la generazione post-bellica, relegata nelle periferie per effetto delle politiche fasciste di sfollamento dai centri storici.
Dai “ragazzi di vita” delle borgate, con Stendalì e Maria e i giorni (1960), Mangini torna nel Meridione e documenta la vita contadina e i suoi antichi rituali pre-cristiani, in forza di una personalissima poetica di matrice antropologica, appresa dagli insegnamenti di Ernesto De Martino e di Antonio Gramsci.
Nella prima metà degli anni Sessanta, Mangini scrive e dirige insieme al marito Lino Del Fra, due lungometraggi – All’armi siam Fascisti! (1962) e La statua di Stalin (1963) – il primo, in coregia con Lino Micciché, entrambi con la collaborazione di Franco Fortini; concepiti come film di montaggio di immagini di repertorio che, per la prima volta, ricostruiscono, storicizzandole, le grandi ideologie novecentesche, hanno esiti completamente diversi. Se il film sull’ascesa e la caduta del regime fascista registrerà nel paese un successo senza precedenti per il genere, il documentario sul fenomeno dello stalinismo subirà da parte del produttore manipolazioni e tagli tali – il titolo diventa Processo a Stalin – da costringere gli autori al ritiro delle loro firme. Nello stesso periodo, la documentarista realizza cortometraggi come Divino amore (1961), un’originale rilettura del culto popolare mariano in un santuario nei pressi di Roma e Felice Natale, (girato nel 1963, ma uscito nel 1967), una critica feroce al consumismo, accostando, attraverso un montaggio d’ispirazione sovietica, uomini e donne nei grandi magazzini a pollame in batteria.
Il documentario d’inchiesta Essere donne (1964), commissionato dal Partito comunista italiano (PCI) in vista delle elezioni amministrative, denuncia le discriminazioni che affliggono le donne nei luoghi di lavoro e dentro le loro case e per questo non ottiene il premio di qualità dalla commissione ministeriale che in questo modo lo censura, escludendolo dalla programmazione obbligatoria. Una ricezione diametralmente opposta si prospetta invece all’estero, dove il film viene celebrato per i suoi meriti artistici e politici, ricevendo, al Festival di Lipsia, il premio speciale della giuria, presieduta da Joris Ivens. Nonostante le evidenti lacune distributive, Essere donne è diventato il film di Mangini di maggior successo, grazie all’intervento del Partito comunista che lo ha programmato nei circoli e nelle associazioni del dopo lavoro, durante le ricorrenze quali l’8 marzo, il 25 aprile e il primo maggio.
L’anno seguente gira Tommaso e Brindisi ’65, cortometraggi dove le illusioni di modernità di un giovane ragazzo si scontrano con le amare delusioni degli operai già piegati dall’industria petrolchimica, temi questi talmente sovversivi da innescare ostacoli e minacce da parte del colosso della Monteshell al produttore che spaventato si rifiuta di distribuirlo. Usciranno infatti nelle sale, il primo nel 1968 e il secondo nel 1969, dopo tre anni dalla loro realizzazione.
Gli anni Settanta e il decennio successivo – nonostante si susseguano riforme legislative di promozione e tutela del cortometraggio di genere documentario – mettono a dura prova autori come Mangini che vogliono continuare a raccontare realtà sociali scomode. Inoltre, il crescente monopolio della RAI e l’avvento delle televisioni private, impongono linee editoriali che limitano drasticamente la libertà nella scelta e nello sviluppo dei soggetti, come testimoniano i molti progetti mai realizzati che compongono l’archivio.
Un altro elemento che conferma questa forma di censura indiretta è la dilatazione del tempo che separa la produzione del documentario dalla distribuzione in sala o televisiva. È il caso di tre cortometraggi girati nei primi anni Settanta. In La briglia sul collo (girato nel 1971, distribuito nel 1980), la documentarista torna a indagare l’infanzia nelle borgate romane, attraverso gli occhi di Fabio, un bambino iperattivo, condannato a una classe differenziale perché non rispetta le norme comportamentali imposte dalla società. Seguono: L’altra faccia del pallone (1973), riflessione sull’impatto socio-culturale del calcio in qualità di forma di evasione e spettacolo, e Dalla ciliegia al lambrusco (girato nel 1973, distribuito nel 1979), camminata popolare da Vignola fino a Castelvetro, organizzata grazie all’iniziativa di circoli associativi attenti a una visione del tempo libero a contatto con la natura.
In questi anni, la maggior parte della sua attività si concentra sulla collaborazione a tutto campo a lungometraggi con la regia di Lino Del Fra o nella scrittura di soggetti e di sceneggiature per altri autori come La villeggiatura (Marco Leto, 1973) o L’incendio del Reichstag (seconda metà degli anni Settanta), un progetto mai realizzato che avrebbe dovuto dirigere Giuliano Montaldo.
Tra i film realizzati con la regia del marito, tra i quali La torta in cielo (1973) e Comizi d’amore ’80 (1983), la collaborazione più sentita, sul piano personale e di militanza, è Antonio Gramsci. I giorni del carcere (1977). Il film racconta del periodo passato dall’intellettuale e politico di Ales nella prigione di Turi tra il 1928 e il 1933; Gramsci assume simbolicamente i tratti di una figura contraria a qualsiasi forma di autoritarismo, sia dimostrando con forza il proprio antifascismo, sia criticando l’ortodossia ideologica del Partito comunista. Pensando all’impatto che il film avrebbe potuto avere nell’Italia degli anni di piombo, Mangini rinuncia volontariamente al suo passaggio al lungometraggio, dal titolo Se…, per condividere con il compagno l’ideazione e la realizzazione di quest’opera.
Dal 2012, la cineasta, dopo un lungo silenzio creativo, ritorna a girare documentari. Avvalendosi di collaboratori come Mariangela Barbanente e Paolo Pisanelli, Mangini si sdoppia, mettendosi dietro e davanti alla macchina da presa per raccontare se stessa, reinterpretando i luoghi e le battaglie di una vita alla luce degli avvenimenti del ventunesimo secolo: In viaggio con Cecilia (2013), Due scatole dimenticate – un viaggio in Vietnam (2020), Il mondo a scatti (2021) e Grazia Deledda, la rivoluzionaria (2021).
Mangini si spegne a Roma il 21 gennaio 2021.
Filmografia
Le fonti utilizzate per la redazione della filmografia di Cecilia Mangini sono i visti di censura e il Registro pubblico delle opere cinematografiche (PRCA). La datazione si riferisce all’anno di edizione dei film ma, in molti casi, la distanza temporale che separa la realizzazione dall’uscita in sala è così ampia, da rendere necessario riportare entrambi le informazioni quando è stato possibile accertarle. Non è presente il film La statua di Stalin, perché uscito con un titolo diverso, Processo a Stalin, e senza la firma degli autori, Cecilia Mangini, Lino Del Fra e Franco Fortini. Infine, il criterio utilizzato per l’organizzazione della presente filmografia è stato distinguere fra i ruoli ricoperti da Cecilia Mangini nella realizzazione della varie opere, ovvero regista, sceneggiatrice/soggettista e interprete.
Regista
Ignoti alla città (1958)
Firenze di Pratolini (1959)
Vecchio Regno (1959), co-regia Lino Del Fra
Maria e i giorni (1960)
Stendalì (Suonano ancora) (1960)
La canta delle marane (1960)
Il popolo vota socialista (1960), co-regia e co-sceneggiatura Lino Del Fra e Lino Micciché
Divino Amore (1961)
All’armi, siam fascisti! (1962), co-regia e co-sceneggiatura Lino Del Fra e Lino Micciché
Accantonata di scorta (1964)
O Trieste del mio cuore (1964)
Essere donne (1964)
Lori e le belve (1964)
Felice Natale (1963 – 1967)
… E ho sempre lavorato (1964 – 1967), regia di Adriana Cenni, pseudonimo della regista
Tommaso (1965 – 1968)
Brindisi ’65 (1965 – 1969)
La scelta (1967 – 1970)
Panorama Cinematografico n.134 – Sardegna (1968), cinegiornale Istituto Luce
Domani vincerò (1969), documentario televisivo in due episodi
G.R.A. (1970)
La briglia sul collo (1971 – 1980)
Nostra casa quotidiana (1971 – 1974)
Mi chiamo Claudio Rossi (1972 – 1980)
L’altra faccia del pallone (1972)
Dalla ciliegia al lambrusco (1972 – 1979)
Un futuro per Roma (1985 – 1990)
In viaggio con Cecilia (2014), co-regia Mariangela Barbanente
Due scatole dimenticate. Un viaggio in Vietnam (2020), co-regia Paolo Pisanelli
Il mondo a scatti (2021),co-regia Paolo Pisanelli
Grazia Deledda, la rivoluzionaria (2021), co-regia Paolo Pisanelli
Sceneggiatrice/soggettista
La torta in cielo (1973), regia di Lino Del Fra
La villeggiatura (1973), regia di Marco Leto
Antonio Gramsci – i giorni del carcere (1977), regia di Lino Del Fra
Comizi d’amore ’80 (1983), inchiesta televisiva in tre episodi, regia di Lino Del Fra
Klon (1992), regia di Lino Del Fra
Regina Coeli (2000), regia di Nico D’Alessandria
Interprete
Vif-argent (2019), regia di Stéphane Batut