Cecilia Mangini:
nascita di una documentarista
Cecilia Mangini si trasferisce a Roma nel 1952, chiamata dal critico Callisto Cosulich che allora guidava la FICC (Federazione Italiana dei Circoli Cinematografici). Mangini si occupa della programmazione a livello nazionale dei cineclub rimasti fedeli al Partito comunista italiano. È in questo modo che entra in contatto con l’ambiente cinematografico della Capitale che conta e cerca e trova l’opportunità di passare dietro la macchina da presa.
Sezioni percorso
1
Ignoti alla città
2
Ai confini del mondo
3
La lezione neorealista di Cesare Zavattini e la poesia di Pier Paolo Pasolini
4
Waste Land
1
Ignoti alla città
In un mondo in cui i ruoli di potere e di prestigio erano prerogativa esclusiva degli uomini, il produttore Fulvio Lucisano le propone di girare un documentario. Per la sua prima prova da regista, Mangini non esita a sviluppare un soggetto ispirato a Ragazzi di vita, pubblicato da Garzanti nel 1955, romanzo di Pier Paolo Pasolini che aveva suscitato molto scalpore. Nasce così Ignoti alla città (1958).


2
Ai confini del mondo
A bordo di una Fiat 500 detta la ‘polverosa’, Mangini con il compagno di vita e di lavoro Lino Del Fra, aveva percorso i sette chilometri di strada sterrata e di nulla che separavano la Capitale dai quartieri dormitorio, per vedere con i propri occhi dove erano finiti coloro che erano stati cacciati dalle abitazioni popolari del centro storico, per fare spazio all’avanzata del decoro architettonico borghese e iniziata in epoca fascista.
3
La lezione neorealista di Cesare Zavattini e la poesia di Pier Paolo Pasolini
Mangini coglie i figli della generazione che aveva fatto la guerra, nella speranza di dare loro un futuro migliore, dentro le loro squallide case, li pedina durante le loro peregrinazioni quotidiane; mostra dove vivono, come si vestono, come si divertono. Li segue mentre si dirigono verso la città per portare, guardinghi, le sigarette ai compagni rinchiusi nel carcere minorile di San Michele a Ripa, lo stesso in cui sono finiti Pasquale e Giuseppe, i protagonisti di Sciuscià (1946), film nato dalla collaborazione di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica.
Nel découpage tecnico, le due sequenze di apertura si ritrovano identiche nel film: Crepuscolo. inquadratura fissa su ragazzi che dormono tra l’erba e tra i vuoti di una pila di tronchi d’albero. Titolo: Ignoti alla città . La prima scena in movimento si apre su un cavallo bianco che va a bere a una marana, seguito da un vecchio. Viene subito in mente Bersagliere, il cavallo simbolo dell’amicizia e dei sogni infranti dei bambini del capolavoro desichiano.
Raccogliendo la lezione dei maestri del Neorealismo, la documentarista, in poco più di dieci minuti, dichiara la sua poetica: i protagonisti del suo cinema saranno gli invisibili, gli emarginati, quelli che agli occhi della società non valgono abbastanza per essere ricordati dalla storia:
“Essere caduti dal seno della madre sul fango e sulla polvere di un deserto che li vuole liberi e soli, essere cresciuti in una foresta, dove i figli lottano con i figli per educarsi alla vita dei grandi: essere ragazzi in una città, fatta per la pietà e la ricchezza, senza sapere altro che la propria fame…“.
Il commento alle immagini di Pasolini stesso – caparbiamente voluto e cercato da una donna completamente sconosciuta, alle prese con la sua opera prima – sublima la potenza delle immagini.
Nel découpage tecnico, le due sequenze di apertura si ritrovano identiche nel film: Crepuscolo. inquadratura fissa su ragazzi che dormono tra l’erba e tra i vuoti di una pila di tronchi d’albero. Titolo: Ignoti alla città . La prima scena in movimento si apre su un cavallo bianco che va a bere a una marana, seguito da un vecchio. Viene subito in mente Bersagliere, il cavallo simbolo dell’amicizia e dei sogni infranti dei bambini del capolavoro desichiano.
Raccogliendo la lezione dei maestri del Neorealismo, la documentarista, in poco più di dieci minuti, dichiara la sua poetica: i protagonisti del suo cinema saranno gli invisibili, gli emarginati, quelli che agli occhi della società non valgono abbastanza per essere ricordati dalla storia:
“Essere caduti dal seno della madre sul fango e sulla polvere di un deserto che li vuole liberi e soli, essere cresciuti in una foresta, dove i figli lottano con i figli per educarsi alla vita dei grandi: essere ragazzi in una città, fatta per la pietà e la ricchezza, senza sapere altro che la propria fame…“.
Il commento alle immagini di Pasolini stesso – caparbiamente voluto e cercato da una donna completamente sconosciuta, alle prese con la sua opera prima – sublima la potenza delle immagini.
4
Waste Land
Più di dieci anni dopo Mangini torna in quelle stesse borgate con il marito che aveva intenzione di ambientare il film La torta in cielo (1973), tratto dall’omonima favola di Gianni Rodari, proprio in quei quartieri popolari che erano stati i luoghi d’elezione di Mangini sia per il suo esordio, Ignoti alla città (1958) che per La canta delle marane (1962), felice proseguimento della sua indagine sui ‘ragazzi di vita’.
Nell’archivio restano i suoi scatti in bianco e nero, testimonianza dei sopralluoghi in quella Waste Land che si ripropone uguale a se stessa, nonostante lo scorrere del tempo. In alcune fotografie, si riconoscono Lino Del Fra e la stessa Mangini che in un’intervista del 2014 così ricordò il loro rapporto:
C’è stata una grandissima collaborazione fra me e Lino, grandissima, nel senso che ci sembrava strano dire questo documentario è mio, questo è tuo. Per cui decidevamo a seconda di chi era stata l’idea o aveva girato le cose più interessanti; firmava ora l’uno, ora l’altro. Io mi sentivo una documentarista, non un regista di film.
Nell’archivio restano i suoi scatti in bianco e nero, testimonianza dei sopralluoghi in quella Waste Land che si ripropone uguale a se stessa, nonostante lo scorrere del tempo. In alcune fotografie, si riconoscono Lino Del Fra e la stessa Mangini che in un’intervista del 2014 così ricordò il loro rapporto:
C’è stata una grandissima collaborazione fra me e Lino, grandissima, nel senso che ci sembrava strano dire questo documentario è mio, questo è tuo. Per cui decidevamo a seconda di chi era stata l’idea o aveva girato le cose più interessanti; firmava ora l’uno, ora l’altro. Io mi sentivo una documentarista, non un regista di film.